Fra pubblico e privato. La valorizzazione e fruizione del patrimonio culturale come strumento di sviluppo territoriale

Il tema accennato alza il sipario su una questione attuale e particolarmente rilevante per le comunità locali. Premesso che le diverse disposizioni normative hanno generato una certa complessità nel regolamentare il rapporto pubblico-privato nell’ambito della valorizzazione e fruizione del patrimonio culturale, possiamo affermare che soltanto nell’ultimo decennio l’azione dello Stato ha rivolto maggiore attenzione all’argomento con l’attribuzione ai cittadini di un ruolo molto più attivo e di un valore più incisivo alla loro partecipazione e centralità nell’ambito della gestione e valorizzazione del patrimonio culturale.

Per comprendere meglio ciò di cui si sta parlando è opportuno fare qualche passo indietro e tracciare brevemente l’iter normativo e culturale che ha caratterizzato nel tempo la gestione dei Beni Culturali nel nostro Paese. 

L’immenso patrimonio culturale ha sofferto in passato, e per lungo tempo, di un’immagine negativa essendo percepito come ostacolo a qualsiasi forma di sviluppo economico territoriale e causa di gravi rallentamenti di importanti lavori pubblici, edili, agricoli, lavori di infrastrutture e trasformazioni urbanistiche. 

Forse più che nel fattore economico, la causa di questa visione pessimistica risiede in un ambito ben più profondo ed importante che rimanda ad un “problema” fondamentalmente culturale da affrontare, in primo luogo, attraverso un’attività di sensibilizzazione verso le comunità, eredi del loro patrimonio culturale. 

Lungo questa direttrice, un passo decisivo che ha contribuito a rivoluzionare, a livello non solo italiano, ma internazionale, la “staticità” dell’immenso valore del patrimonio culturale, è stata la Convenzione di Faro che ha avviato una fase in cui il “problema” della valorizzazione economica e culturale diventa risorsa per il Paese. 

Uno degli snodi principali della Convenzione fa riferimento alla cosiddetta “comunità di patrimonio”, intesa, nell’articolo 2 dello stesso documento, come “un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici del patrimonio culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future”.

La Convenzione prende il nome dalla località portoghese dove, il 27 ottobre 2005, si è tenuto l’incontro di apertura alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa e all’adesione dell’Unione europea e degli Stati non membri. Entra in vigore il 1° giugno 2011.

Ad oggi sono 21 gli Stati membri del Consiglio d’Europa che hanno ratificato la Convenzione e 6 hanno firmato, tra cui l’Italia che firma il 27 febbraio 2013.

La Convenzione internazionale muove dal concetto che la conoscenza e l’uso dell’eredità culturale rientrano fra i diritti dell’individuo a prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità e a godere delle arti, diritto sancito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Parigi 1948) e garantito dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (Parigi 1966).

La Convenzione chiama le popolazioni a svolgere un ruolo attivo nel riconoscimento dei valori dell’eredità culturale e invita gli Stati a promuovere un processo di valorizzazione partecipativo fondato sulla sinergia fra istituzioni pubbliche, cittadini privati, associazioni e soggetti che la stessa Convenzione, all’articolo 2, definisce “comunità di eredità”.

In alcuni degli articoli del documento traspare nettamente il valore ed il potenziale che la Convenzione attribuisce al patrimonio culturale, inteso come risorsa per uno sviluppo durevole ed una migliore qualità della vita; viene sancito il “diritto al patrimonio culturale” e riconosciuta la responsabilità individuale e collettiva nei confronti del patrimonio culturale sottolineando l’importanza della sua conservazione ed il suo ruolo nella costruzione di una società pacifica e democratica.

Un grande passo avanti nella storia della gestione dei beni culturali

Un approccio di tale portata innovativa non può che potenziare tutte le possibili azioni che mirano ad ampliare la fascia di utenze per fare in modo che musei, aree archeologiche, luoghi della cultura, tradizioni, usi, costumi, possano essere maggiormente compresi e possano acquisire un rinnovato appeal soprattutto nei confronti delle nuove generazioni. 

Appare evidente e di fondamentale importanza, quindi, il ricorso a canali di comunicazione e linguaggi nuovi in grado di adeguarsi agli scenari attuali, abbandonando definitivamente codici eccessivamente accademici e poco chiari ai più, favorendo il libero accesso alla conoscenza, condivisione di dati e, cosa ancora più importante, promuovendo la libera circolazione delle risorse digitali e delle immagini. 

Tuttavia, la consapevolezza di nuovi strumenti da adottare, come quelli appena citati, entra in conflitto con quanto si registra in Italia, ossia un forte ritardo da ricondurre alla legge Ronchey (L. n. 4 del 1993), trasferita in seguito nel Codice dei Beni Culturali, che pone il divieto di riprodurre i beni culturali, diritto garantito esclusivamente agli Istituti ministeriali.

È facilmente desumibile, allora, come questo fattore incida fortemente e negativamente sul processo di conoscenza del patrimonio culturale, di democratizzazione della ricerca scientifica e della libera fruizione. Tali limiti si riflettono “a cascata” anche sotto un profilo più strettamente economico; si pensi a come la libera circolazione delle immagini, garantita nei suoi aspetti di uso legittimo per esigenze di tutela e diritti d’autore, costituisca un potente strumento di comunicazione per la promozione di un territorio anche ai fini turistici. Tuttavia, purtroppo ancora oggi, in Italia, resiste quella concezione anacronistica, propria di un certo tipo di mondo accademico ancora legato a dinamiche ormai poco attuali e secondo cui le attività di divulgazione sono ancora da percepire marginalmente rispetto a quelle attività legate a processi di ricerca pura.

Se, invece, analizziamo la situazione da un altro punto di vista, siamo davanti ad un aumento della domanda di fruizione culturale che mira a superare i vecchi confini tra tutela e valorizzazione, tra beni culturali e turismo, tra pubblico e privato, tra cultura ed economia secondo una visione molto più dinamica che apprezza il valore del patrimonio culturale in senso conoscitivo, ma anche economico superando, in tal modo, quella visione che ha un’accezione spesso intesa come del tutto passiva e volta esclusivamente alla conservazione e custodia dei beni. 

Per superare questa visione è necessario partire dall’idea che le risorse culturali, siano esse beni materiali o immateriali, sono in grado di dare vita a prodotti e servizi di consumo che possono essere acquistati e consumati, pur mantenendo sempre le loro caratteristiche intrinseche di irriproducibilità, originalità, indivisibilità e peculiarità. Fruire del patrimonio culturale, in tal senso, diventa così una forma di utilizzo in cui il prodotto soddisfa anche un bisogno.

Tra i casi esemplificativi, che danno un’idea del potenziale economico di risorse culturali “dormienti” trasformate in importanti attrazioni turistiche, si pensi al progetto del Museo Guggenheim di Bilbao.

La città di Bilbao, nel nord della Spagna, durante gli anni ’80 del secolo scorso, attraversava una fase di forte declino determinata dalla posizione periferica di difficile accesso, da una crisi dell’attività manifatturiera della regione, dalla mancanza di attrattive e dalla diffusione della povertà con un conseguente abbassamento del livello culturale della cittadinanza.

Dalla proficua collaborazione tra l’amministrazione del Pais Vasco e la grande istituzione privata di livello mondiale Solomon Guggenheim Foundation di New York nasce, nel 1997, il Museo di arte contemporanea Guggenheim Bilbao. L’opera fu realizzata contestualmente ad una serie di lavori che hanno portato alla rivitalizzazione della città e della provincia di Vizcaya: un palazzo dei congressi, un aeroporto internazionale, una nuova metropolitana ed un piano di sistemazione delle rive del fiume Nervion che attraversa la città.

A cinque anni dalla sua inaugurazione, nel 1997, il Museo è stato visitato da 4 milioni di visitatori e nell’ultimo decennio si calcolano più di un milione di presenze l’anno.

Un caso, quello di Bilbao, che dimostra esattamente quello che il patrimonio culturale è in grado di generare favorendo del rilancio economico di un territorio, generando sviluppo turistico e un rinnovamento del settore terziario in un’area della Spagna devastata dalla povertà ed economicamente depressa. Le conseguenze di un’opera di tale portata hanno, quindi, incrementato il volume d’affari complessivo delle attività, promosso una identificazione della città con la sua struttura culturale, creandone un’immagine positiva e rappresentato un ottimo esempio di collaborazione tra pubblico e privato.

Cosa accade in Italia?

La dicotomia pubblico/privato nel nostro Paese presenta ancora alcune problematiche legate alla gestione, valorizzazione e fruizione del patrimonio culturale. 

I soggetti chiamati a fornire un proprio contributo nell’ambito della valorizzazione sono diversi; l’importanza che la produzione privata di servizi culturali può generare in termini di risorsa sussidiaria è ormai un dato acquisito, sebbene sia ancora lontana la realtà di Bilbao.

Da un punto di vista normativo si richiama l’art. 111 dell’attuale legge in vigore (D.Lgs. n. 42 del 2004 e s.m.i. – Codice dei beni culturali e del paesaggio) che regolamenta come segue il senso della valorizzazione favorendo la “costituzione ed organizzazione stabile di risorse, strutture o reti, ovvero nella messa a disposizione di competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali, finalizzate all’esercizio delle funzioni ed al perseguimento delle finalità”.

Sempre il Codice, all’art. 6, rimanda al fatto che a tali attività possono concorrere, cooperare o partecipare anche soggetti privati.

Ciononostante, ancora oggi, buona parte degli accordi di valorizzazione e gestione hanno visto una partecipazione limitata di soggetti privati impegnati in attività che richiedono un ruolo molto più incisivo dell’apparato pubblico, necessario a monitorare costantemente l’equilibrio tra tutela, valorizzazione economica e culturale. 

In Italia, dunque, appare evidente che gli attori coinvolti non abbiano ancora raggiunto pienamente un vero e proprio equilibrio. In particolare, se da un lato, è ormai consolidata l’idea che il ruolo dei soggetti privati sia fondamentale e determinante, dall’altra parte le politiche culturali delle pubbliche istituzioni hanno il compito di facilitare e coordinare, anche sperimentando forme innovative di partnership, conoscenze ed esperienze, anche provenienti da un investitore privato, dalla comunità locale o dagli esperti del settore culturale. 

 

A cura di

Laura Alfano

Contrattista ISPC CNR

Laura Alfano